Smart working post-pandemia: opportunità mancate e modelli possibili

Dallo slancio della pandemia alle scelte di oggi: cosa resta dello smart working in Italia ed Emilia-Romagna e quali modelli concreti possiamo attivare, senza slogan

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Smart working post-pandemia: opportunità mancate e modelli possibili – emiliaromagna5stelle.it

Nei mesi più duri della pandemia, le nostre giornate hanno cambiato ritmo. Il tavolo della cucina è diventato scrivania. Le call hanno preso il posto dei corridoi. Qualcosa, allora, si è mosso in fretta. Non solo per necessità, ma anche per curiosità: capire se un altro modo di lavorare fosse possibile.

Durante l’emergenza, lo smart working ha smesso di essere nicchia. Ha toccato uffici pubblici, servizi, consulenza, banche, media. Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, i lavoratori da remoto sono passati da poche centinaia di migliaia del 2019 a milioni nel 2020-2021; nel 2023 si attestano ancora su numeri significativi. La prova generale c’è stata.

Cosa è rimasto? I servizi professionali e le grandi aziende del digitale hanno stabilizzato modelli ibridi. Molte realtà della manifattura e del retail sono tornate in presenza quasi totale, per natura del lavoro e per cultura organizzativa.

La pubblica amministrazione ha mantenuto pratiche ibride in modo disomogeneo: alcuni ministeri e grandi enti hanno protocolli strutturati; altri hanno riacceso badge e scrivanie come prima.

I motivi? Sicurezza dei dati, spazi già pagati, leadership che si fida poco del lavoro per obiettivi. La Banca d’Italia nota che la produttività in remoto dipende da processi e competenze digitali, non dal luogo in sé.

Lo smart working che non funziona e le ripercussioni sul mercato italiano

Qui si intravede un conto aperto. In Italia abbiamo perso parte dei vantaggi misurati allora: mobilità più fluida, equilibrio vita-lavoro più sano, meno inquinamento.

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Lo smart working che non funziona e le ripercussioni sul mercato italiano – emiliaromagna5stelle.it

L’Agenzia Europea dell’Ambiente ha registrato cali rilevanti degli inquinanti durante i periodi di riduzione del traffico; una parte di quel beneficio poteva diventare strutturale con un remoto di 1-2 giorni a settimana. Anche l’IEA segnala che il lavoro da casa riduce consumi ed emissioni se accompagnato da scelte organizzative coerenti.

In Emilia-Romagna, la questione è concreta. L’asse della via Emilia concentra pendolari, logistica e industria. Un lunedì di pioggia, la tangenziale di Bologna scorre meglio se una parte di uffici lavora da remoto: lo si è visto. ARPAE documenta quanto il traffico pesi sulla qualità dell’aria in pianura padana. Qui il lavoro agile può essere politica di mobilità, non solo benefit.

Cosa possiamo ancora fare, senza mitizzare il “tutto da casa”? Puntare su una pubblica amministrazione digitalizzata. Procedure end-to-end online, identità digitale, fascicoli elettronici: meno sportelli fisici, più servizi misurabili per obiettivi.

Il PNRR e il Dipartimento per la Trasformazione Digitale danno strumenti e standard. Creare una rete di co-working di prossimità nei territori. Spazi piccoli, diffusi, connesse ai trasporti. Il lavoratore evita 40 km di auto, l’azienda mantiene socialità e sicurezza, il comune rivitalizza il quartiere.

Introdurre incentivi mirati al lavoro agile. Voucher per postazioni in co-working, contributi per ergonomia e connettività domestica, premi fiscali a chi riduce i picchi di traffico con piani ibridi. Regole chiare su diritto alla disconnessione e sugli obiettivi.

Non serve ideologia. Serve un patto semplice: meno tempo sprecato in coda, più qualità del lavoro, impatti ambientali misurati. Vogliamo trasformare l’esperimento in normalità intelligente? La prossima riunione del martedì potrebbe già essere il primo test.

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